“Là dove porta il Maestrale” di Federica Pucci

Oggi, per Scrittori Uniti, vi chiedo di dare una mano a questa ragazza per la campagna crowfunding di BookaBook. Leggete l’estratto e scopritelo! Aiutiamola!

Il libro

Mare calmo, cielo azzurro, una nave da crociera da sogno. Tutte premesse per una vacanza perfetta.

Ciononostante, sei passeggeri non riescono proprio a “staccare la spina”: il professor Pacini non tollera Ivan, poiché lo ritiene un ignorante e un cafone; lo psichiatra Stefano Cattaneo non può digerire Maria Letizia, fervente religiosa; Valentina Cattaneo mal sopporta l’esuberante Barbara Capuozzo; la vecchia Benedetta Furlanis offende senza sosta Abimbola, soltanto perché di colore; il tredicenne Alessio prende di mira Sara, una bambina con la sindrome di Down, e la neosposa Cecilia non può fare a meno di schernire Oreste Vaccari, uomo timido e goffo.

Alla base del loro comportamento c’è solo una mancanza di sensibilità, o forse una ragione più intima e profonda?

È quel che vorrebbe capire Luisa, signora dall’animo gentile, mentre la “Mistral III” solca le acque del Mediterraneo volgendo la sua prua sempre più ad est. Tenete gli occhi puntati sull’orizzonte! Il viaggio continua…

L’autrice

Nata a Roma il 14 agosto 1987, dopo aver conseguito la maturità classica si è laureata in Medicina e Chirurgia e in seguito ha ottenuto il diploma specialistico in Medicina generale. Attualmente medico di famiglia, nutre da sempre una forte passione per la scrittura e la lettura. Un altro suo interesse sono i viaggi, che l’hanno portata ad esplorare tutti e cinque i continenti. “Là dove porta il Maestrale” è il suo romanzo di esordio.

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“Là dove porta il Maestrale”

L’estratto

La spiegazione architettonica sulle colonne e su ciò che rimaneva del frontone, che Benedetta Furlanis aveva così caldamente raccomandato al professore, era davvero di una noia micidiale. Inoltre, non appena la guida dichiarò con convinzione che all’interno del tempio doveva esserci stato un altare per compiere riti sacrificali, Carlo venne colto da una sensazione di delusione mista a sconforto, poiché la verità era che nessun resto di altare era mai stato trovato, e che anzi il tempio aveva probabilmente avuto l’esclusiva funzione di una tesoreria. Cosicché Pacini, cercando di non esser visto dalla guida perché allontanarsi così presto poteva sembrare un atto di maleducazione, si scostò a lenti passi dalla folla e si avviò in solitudine verso il limitar dell’altura, incontrando qua e là resti di antiche colonne e capitelli dorici e ionici che, immobili sotto al sole e accarezzati appena dal tiepido venticello, testimoniavano della grandezza e del fasto di una delle più antiche ed importanti civiltà del Mediterraneo. A un certo punto egli scorse, ad una ventina di metri da lui, la signora Luisa, la quale era intenta a far fotografie al tempio con una reflex ultimo modello che teneva assicurata al collo con una cinghia. Carlo pensò, per un attimo, di andarla a salutare, ma poi decise di lasciar perdere e proseguì da solo la sua passeggiata. Una volta che fu giunto ad un punto panoramico, il professore si fermò e si mise a contemplare la città che si sviluppava oltre il bosco di ulivi, con il monte Licabetto che si ergeva isolato tra i tetti delle case e, sullo sfondo, i resti del tempio di Zeus. Inspirando a pieno petto l’aria di lassù, fece poi per portare la mano alla tasca per prendere il pacchetto delle sigarette; ma si bloccò. Quel vento che aveva sul viso, le rocce sotto i suoi piedi, le rovine intorno a lui, il bosco sotto di lui, la città col monte in lontananza, tutto ciò aveva creato un contesto entro il quale il professore si sentiva piccolo e inadeguato, e pertanto quel gesto del fumare sarebbe stato, per sensazione di Pacini, un gesto futile, sconveniente e inopportuno. Perso in queste nebulose riflessioni, in questi pensieri indistinti e vagamente depressivi, Carlo si incamminò infine verso l’Eretteo, ma non per un preciso interesse di tipo culturale o turistico, bensì come se fosse ivi spinto da un’indefinibile corrente, da un irresistibile istinto. Una volta che fu giunto, per così dire, al cospetto di quelle sei donne, le cariatidi, si fermò ad osservarle. Esse non sorridevano. Avevano tutte un’aria severa, austera, grave. Carlo esalò un sospiro. Fissò i suoi occhi in quelli delle donne. Chissà qual era il loro segreto. Chissà perché erano lì, tutte vestite con la medesima tunica e scolpite nel medesimo atteggiamento. Fiero, quasi di sfida.

Poi, con la coda dell’occhio, vide lei. «Cecilia..», assorta com’era nel disegnar qualcosa su un foglio, ella dapprincipio non lo udì. «Cecilia, anche tu qui?» Solo allora lei sollevò lo sguardo. «Carlo!» «Ho interrotto qualcosa?» «Stavo soltanto facendo degli schizzi…» Carlo le si avvicinò e osservò il disegno. «Come mai disegni le cariatidi?» «Mi ispirano», rispose lei senza distogliere un attimo lo sguardo dalle sculture. «E che cosa ti ispirano?» «Non lo so ancora, ma sto cercando di capirlo.» «Questa è proprio una risposta da artista.» Cecilia sollevò il disegno, lo studiò inclinando leggermente la testa, come a volerne considerare un particolare dettaglio, e disse: «La donna che è qui, sulla destra, non mi sta venendo molto bene. Non riesco a decifrarne l’espressione.» «A me queste donne sembrano tutte indecifrabili.» «Sì, ma un vero artista non dovrebbe fermarsi a una simile difficoltà. E son certa che mia madre avrebbe saputo fare molto meglio di me. “Le lingue dell’arte non hanno bisogno di essere tradotte, se è l’occhio dell’artista che le legge”, diceva.» «La tua mamma dipinge anche lei?» Cecilia non rispose. Adesso contemplava il suo lavoro con la fronte corrugata, come se intimamente lo stesse analizzando e lo stesse sottoponendo a un severo giudizio cercandovi delle risposte a domande che solo lei sapeva, e infine disse: «Non c’è niente da fare. Questa cariatide qui mi sembra meno bella delle altre…» «“Bello” è un aggettivo tremendo», disse Carlo. «Che significa “bello?” “Bello” è un aggettivo che appiattisce, che banalizza. Se vogliamo ammettere che qualcosa abbia avuto un impatto positivo su di noi, ma non riusciamo a spiegare con dei termini precisi il perché di questa sensazione, è meglio tutt’al più dire: “Ciò è interessante, ciò è piacevole”, piuttosto che dire: “Ciò è bello.” Che significa “è bello?”» «La bellezza è oggettiva.» «E che significa “oggettivo?” Ti do ragione sul fatto che esistono forme più armoniche di altre, e infatti gli antichi greci, nelle loro sculture, si ponevano come obiettivo la riproduzione della bellezza intesa come perfezione dei lineamenti, come equilibrio delle proporzioni. Ma questo è un fatto meramente matematico, e il bello inteso come lo intendevano loro nella realtà non esiste, perché la bellezza non è certamente matematica, e la ricerca della bellezza era per loro più un’aspirazione a rendere l’uomo simile alle divinità, piuttosto che un modo per riprodurre la verità. Ho scritto un saggio sull’argomento, sai? In cui definisco l’arte in quelli che io chiamo “i quattro assi del pensiero”, ossia la soggettività, l’oggettività, la verità e la misura. E in questo saggio tratto del confronto tra arte classica e arte moderna, dimostrando come la prima miri a rappresentar la bellezza oggettiva, e come la seconda miri a rappresentar la bellezza soggettiva; perché se l’arte classica cerca la perfezione nelle …”

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