Intervista a Diego Pitea

Buonasera! Conosciamo più da vicino Diego Pitea, scrittore di gialli, marito e papà premuroso.

L’ultimo rintocco” è l’opera che ho già recensito per lui.

Quella che invece vedremo domani è “La stanza delle Illusioni’

  • Quando hai iniziato a scrivere?

Sono sempre stato un appassionato lettore. Ho, ancora, impressa nella mente l’immagine vivida di me bambino, coricato a letto, e mio padre accanto che legge Arthur Conan Doyle, Edgar Wallace e Agatha Christie. Il passaggio alla scrittura è subentrato più tardi, con i primi piccoli racconti, molto ingenui, a beneficio solo della mia famiglia. La svolta arrivò nel 2009, anno in cui mia madre fu colpita da una malattia molto grave. Giurai a me stesso che se si fosse salvata non avrei letto più un libro giallo e chi mi conosce sa quale sacrificio rappresentò per me. La mancanza fu talmente forte che non trascorse molto tempo da che decisi di scriverne uno, a mio uso e consumo. Tentai con l’incubo di tutti gli scrittori di romanzi gialli: la camera chiusa. Il tentativo non dovette andare male perché “Rebus per un delitto”, nel 2012, arrivò in finale al premio “Tedeschi” della Mondadori, affermazione bissata due anni dopo con il secondo libro “Qualcuno mi uccida”. Pertanto, il vero inizio si può contrassegnare in quella data.

  • Quanto tempo dedichi alla scrittura?

Quanto me ne lasciano le mie tre piccole pesti: Nano, Mollusco e Belva. Il principale inconveniente per chi non vive di scrittura è proprio questo: non potersi dedicare a tempo pieno alla propria passione. Quando posso, però, soprattutto la sera, indossò le cuffie e mi immergo nel mondo di Richard Dale. Faccio in modo da ritagliarmi almeno un’ora al giorno per non perdere il “ritmo”.

  • Quanto di te c’è in cui di cui scrivi?

Poco se non addirittura niente. Le mie sono storie poco comuni, complicate, con personaggi particolari che difficilmente si incontrano nella vita quotidiana. Più che il contesto sociale, in me hanno influito profondamente le letture giovanili e la mia passione smodata per la cronaca. Non per niente la sotto trama gialla de “L’ultimo rintocco” è ispirata a un fatto di cronaca famosissimo.

  • Quanto ha influito il contesto sociale in cui sei cresciuto su quello di cui scrivi?

Molto, moltissimo. La maggior parte degli scrittori, a mio avviso, nel creare un personaggio si ispira a qualcosa di conosciuto. L’ho letto di Chandler, ma anche Hemingway, Oscar Wilde… la lista è lunghissima. Nel caso del mio protagonista non sono dovuto andare troppo lontano perché Richard Dale sono io. Miei sono i suoi pensieri, miei sono i suoi comportamenti e mie sono le sue esperienze. Mi è sembrata la scelta migliore al fine di renderlo il più realistico possibile. Anche i personaggi principali del romanzo sono, inoltre, parzialmente ispirati a persone a me vicine. In questo modo riesco a caratterizzarli in maniera più puntuale, poi ci metto del mio.

  • Come vivi l’inizio, quando il tuo libro nasce, e la fine?

L’inizio è un incubo. Quando ti trovi davanti la pagina bianca con solo il titolo in alto pensi fra te: “e adesso cosa scrivo?”. A parte gli scherzi, iniziare è sempre una grandissima emozione. Per quanto riguarda i thriller psicologici che ho scritto, quando ho iniziato neanche io sapevo dove sarei andato a finire, per cui è stato come esplorare un mondo sconosciuto. Quando ti accorgi, poi, nel corso della stesura, che il libro sta prendendo una forma che ti piace provi una sensazione difficilmente descrivibile. La parola “fine” genera in me, invece, pensieri contraddittori: da una parte gioia, perché i miei libri sono lunghi e complicati da scrivere e mi richiedono un grande sforzo di concentrazione, d’altra parte è come se una persona a cui tieni ti lascia dopo una storia d’amore intensa. In realtà, però, un libro non “finisce” mai, se così vogliamo dire. Prima di essere pubblicato ha bisogno di numerose revisioni, editing e interventi vari, per cui è sempre lì che ti aspetta per essere letto una volta ancora. Dopo la pubblicazione si comincia con la promozione, le presentazioni, il rapporto con i lettori, per cui la verità è che un libro ti lascia solo quando sei tu a volerlo.

  • Quanto ami leggere? Genere e autore preferito? Quanto influiscono le tue letture sul tuo stile come autore?

Come dicevo la lettura è stata la mia prima passione, prima del calcio per il quale ho girato l’Italia e fatto diversi sacrifici. Quando ero ragazzo ero un lettore vorace, riuscivo a leggere anche due libri al giorno, in un tour de force dalla mattina alla sera. Oggi che il tempo a disposizione si è ridotto drasticamente a causa dei figli, riesco a leggere molto di meno, ma un libro non deve mai mancare sul comodino, possibilmente giallo, anche se non disdegno altri generi. I romanzi gialli, però, mi provocano un picco adrenalinico che non riesco a provare con altri generi. Quando si avvicina la fine il mio corpo entra in uno stato di eccitazione nervosa che termina solo dopo lo svelamento dell’assassino. Libri come “Dieci piccoli indiani”, “La serie infernale”, “L’enigma dell’alfiere”, sono pietre miliari del genere e devono essere necessariamente letti dagli appassionati e da chi vuole intraprendere la carriera di scrittore di romanzi gialli.

  • A chi hai fatto leggere per primo/a il tuo testo?

La prima persona che legge i miei romanzi è sempre mio padre Ninì, alter ego del commissario Marani ne “L’ultimo rintocco”. Abbiamo avuto sempre un rapporto splendido e spesso ci confrontiamo sui romanzi da leggere. È lui il mio primo censore e essendo un lettore di gialli di vecchia data riesce a darmi consigli che mi permettono di migliorare il libro. Solo dopo questo passaggio obbligato il libro è pronto per essere letto da tutti gli altri.

  • C’è qualcuno che vuoi ringraziare come sostegno della tua opera?

I miei primi ringraziamenti vanno, naturalmente, alla mia famiglia: da sempre patiscono i miei silenzi, i miei sbalzi d’umore, la mia mutabilità e tutti gli altri difetti che mi porto appresso. Mi hanno supportato fin dal primo momento, fin da quando ho detto loro che avevo intenzione di intraprendere quest’avventura. Tutti loro si sono dovuti sorbire le innumerevoli versioni del libro, dispensandomi, ogni volta, consigli preziosi. Un grazie va anche a tutte le persone, amici, che hanno letto il libro prima della pubblicazione e che sono stati fonte d’innumerevoli suggerimenti che hanno contribuito a migliorarmi e a migliorare il libro. Non posso, inoltre, dimenticare la mia agenzia letteraria nella persona di Cristina Vernizzi, che ho apprezzato fin dal primo istante per la sua gentilezza, comprensione e professionalità e con la quale è nato, fin dalla prima telefonata, un rapporto d’amicizia sincero. Un ringraziamento a Serena Di Battista e Marta Cannata, le mie editor. Se il libro è piaciuto molto lo si deve anche a loro.

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